Gol
den
age
of
Gela
Lasciandosi sciogliere in bocca una granita ai gelsi, in un pomeriggio del giugno del 1958, gli abitanti di Gela pensano che sia davvero arrivata la felicità e che abbia preso casa qui, sul molo del lido La Conchiglia, per guardare le onde del mare.
Il lido è stato appena inaugurato, forse non antico come quelli vittoriani di Brighton e Margate, né ancora famoso come quelli di Ostia e Senigallia ma come questi è un palazzo di piaceri, un’ostrica bianca che affiora dal mare di Sicilia; certifica una nuova era di prosperità, promette di stupire i turisti, richiama da tutto il mondo vedettes e jet set.
Il peggio è finalmente trascorso, le vecchie costumanze agricole si scansano al passaggio del progresso: Gela è il futuro, Gela è guarita.
Gela ha lungamente sofferto di encefalite letargica; immemore del prestigio classico che la tramanda come una delle città più ricche dell’Ellade, orba del ricordo di Eschilo, Gelone e Ierone, ha dormito per 24 secoli.
Un sonno profondo l’ha rattrappita per più di due millenni riducendola a un feudo baronale, ma ora tutto è finito, Gela ha spalancato gli occhi, una cura miracolosa l’ha scossa: un’iniezione di idrocarburi, il petrolio.
Dal podio della Conchiglia cantano Modugno e Little Tony, ai tavoli della Conchiglia funzionari algerini osservano il mare riempiendo i posaceneri, ogni sabato un ricevimento di matrimonio trascina la Conchiglia in un valzer innamorato.
Arrivarono prima i texani della Gulf, poi l’AGIP, infine l’ENI e l’ANIC. Dalla metà degli anni 50 tra Ragusa e Gela si parla inglese con l’accento di Dallas, dialetto lombardo e piemontese, arabo e francese. I pozzi petroliferi illuminano una notte antica e smisurata e le fiamme immortali degli sfiatatoi di zolfo trasformano la piana in una colonia lunare; la luce, i suoni, gli odori e la temperatura: tutto cambia in pochi anni.
Anche quando un pozzo esplode c’è la soluzione, a qualche ora di volo: arriva Myron Kinley, l’uomo salamandra, lo specialista degli incendi petroliferi, occhiali da sole, Stetson e stivali.
Tutto procede in modo inarrestabile.
Nuove edificazioni dai nomi cosmopoliti: via Giamaica, via Brasile, via Guatemala.
E ancora: premi letterari, riaperture di teatri e musei, un decennio di sistematizzazione archeologica e decine di documentari dell’istituto Luce, della Rai e dell’Eni a raccontare questa promessa di felicità.
Nel 1960 L’Eni circonda il paese di Gela e lo trasforma in una città: a levante gli impianti di raffinazione, a ponente un nuovo quartiere per le maestranze settentrionali: il quartiere Macchitella. È arrivato il centro stile dell’ENI con un progetto di Eduard Gellner, reduce dall’utopia delle architetture in Cadore costruite con Carlo Scarpa.
Qui le linee sono meno ardite, si tratta di semplici condomini per 8500 persone e un MotelAgip da 100 camere. Di fianco alla centro storico di Gela, edificato nell’800 rimane però vistoso il carattere esogeno dell’intervento.
Al centro del lungomare della vecchia Gela resiste il molo della Conchiglia, sempre più imbrattato di catrame. Il petrolio dà, il petrolio prende e inizia col togliere la spiaggia e le speranze di turismo. I gelesi si risvegliano da questa notte d’amore durata un decennio e illuminata dai neon delle raffinerie.
È la spietata legge del capitale: senza sfruttamento non c’è sviluppo. Lenzuola sgualcite e fiori appassiti.
Il molo da passeggio di Galveston, Texas, fu distrutto dall’uragano Carla nel 1961. Il molo di Gela inizia a tramontare con i primi 70.
I 22 pozzi, ormai quasi del tutto inattivi, hanno smesso di estrarre petrolio e infettano di bitume la piana di Gela.
Gli amplificatori Vox, le tastiere Farfisa, le chitarre Eko non sono più di casa al lido. La felicità è andata altrove portando via con sè i gelati alla mandorla.
La festa è finita e la Conchiglia viene scarnificata di ogni arredo.
Ridotta a saloon di una città fantasma della corsa all’oro, nel 1981 viene chiusa definitivamente dopo una sparatoria a un tavolo da gioco.
Ora, semicrollata, attende una ruspa pietosa.
I pozzi orfani dell’Eni si sono asciugati in silenzio; la linea ferroviaria per Caltagirone è stata abbandonata; il chiosco di bevande arabe di piazza Umberto ha chiuso; Gela ritorna assopita nel suo letargo.
Dice l’Eteocle di Eschilo: “gli Dei di una città catturata l’abbandonano”.
Golden age of Gela 
Lasciandosi sciogliere in bocca una granita ai gelsi, in un pomeriggio del giugno del 1958, gli abitanti di Gela pensano che sia davvero arrivata la felicità e che abbia preso casa qui, sul molo del lido La Conchiglia, per guardare le onde del mare.
Il lido è stato appena inaugurato, forse non antico come quelli vittoriani di Brighton e Margate, né ancora famoso come quelli di Ostia e Senigallia ma come questi è un palazzo di piaceri, un’ostrica bianca che affiora dal mare di Sicilia; certifica una nuova era di prosperità, promette di stupire i turisti, richiama da tutto il mondo vedettes e jet set.
Il peggio è finalmente trascorso, le vecchie costumanze agricole si scansano al passaggio del progresso: Gela è il futuro, Gela è guarita.
Gela ha lungamente sofferto di encefalite letargica; immemore del prestigio classico che la tramanda come una delle città più ricche dell’Ellade, orba del ricordo di Eschilo, Gelone e Ierone, ha dormito per 24 secoli.
Un sonno profondo l’ha rattrappita per più di due millenni riducendola a un feudo baronale, ma ora tutto è finito, Gela ha spalancato gli occhi, una cura miracolosa l’ha scossa: un’iniezione di idrocarburi, il petrolio.
Dal podio della Conchiglia cantano Modugno e Little Tony, ai tavoli della Conchiglia funzionari algerini osservano il mare riempiendo i posaceneri, ogni sabato un ricevimento di matrimonio trascina la Conchiglia in un valzer innamorato.
Arrivarono prima i texani della Gulf, poi l’AGIP, infine l’ENI e l’ANIC. Dalla metà degli anni 50 tra Ragusa e Gela si parla inglese con l’accento di Dallas, dialetto lombardo e piemontese, arabo e francese. I pozzi petroliferi illuminano una notte antica e smisurata e le fiamme immortali degli sfiatatoi di zolfo trasformano la piana in una colonia lunare; la luce, i suoni, gli odori e la temperatura: tutto cambia in pochi anni.
Anche quando un pozzo esplode c’è la soluzione, a qualche ora di volo: arriva Myron Kinley, l’uomo salamandra, lo specialista degli incendi petroliferi, occhiali da sole, Stetson e stivali.
Tutto procede in modo inarrestabile.
Nuove edificazioni dai nomi cosmopoliti: via Giamaica, via Brasile, via Guatemala.
E ancora: premi letterari, riaperture di teatri e musei, un decennio di sistematizzazione archeologica e decine di documentari dell’istituto Luce, della Rai e dell’Eni a raccontare questa promessa di felicità.
Nel 1960 L’Eni circonda il paese di Gela e lo trasforma in una città: a levante gli impianti di raffinazione, a ponente un nuovo quartiere per le maestranze settentrionali: il quartiere Macchitella. È arrivato il centro stile dell’ENI con un progetto di Eduard Gellner, reduce dall’utopia delle architetture in Cadore costruite con Carlo Scarpa.
Qui le linee sono meno ardite, si tratta di semplici condomini per 8500 persone e un MotelAgip da 100 camere. Di fianco alla centro storico di Gela, edificato nell’800 rimane però vistoso il carattere esogeno dell’intervento.
Al centro del lungomare della vecchia Gela resiste il molo della Conchiglia, sempre più imbrattato di catrame. Il petrolio dà, il petrolio prende e inizia col togliere la spiaggia e le speranze di turismo. I gelesi si risvegliano da questa notte d’amore durata un decennio e illuminata dai neon delle raffinerie.
È la spietata legge del capitale: senza sfruttamento non c’è sviluppo. Lenzuola sgualcite e fiori appassiti.
Il molo da passeggio di Galveston, Texas, fu distrutto dall’uragano Carla nel 1961. Il molo di Gela inizia a tramontare con i primi 70.
I 22 pozzi, ormai quasi del tutto inattivi, hanno smesso di estrarre petrolio e infettano di bitume la piana di Gela.
Gli amplificatori Vox, le tastiere Farfisa, le chitarre Eko non sono più di casa al lido. La felicità è andata altrove portando via con sè i gelati alla mandorla.
La festa è finita e la Conchiglia viene scarnificata di ogni arredo.
Ridotta a saloon di una città fantasma della corsa all’oro, nel 1981 viene chiusa definitivamente dopo una sparatoria a un tavolo da gioco.
Ora, semicrollata, attende una ruspa pietosa.
I pozzi orfani dell’Eni si sono asciugati in silenzio; la linea ferroviaria per Caltagirone è stata abbandonata; il chiosco di bevande arabe di piazza Umberto ha chiuso; Gela ritorna assopita nel suo letargo.
Dice l’Eteocle di Eschilo: “gli Dei di una città catturata l’abbandonano”.