Introduzione
This is bologna è un documentario ad episodi.
12 episodi tra i 5 e 10 minuti.
Si rivolge sia allo slot televisivo del documentario che alla declinazione in piccole puntate come contenuto digitale.
Può essere considerato un intero o una somma delle parti, non importa.
Vuole essere un ritratto pop e affollato di videografica, animazione, tecnica mista.
Racconta di come una città cambi (Bologna, ma non fatichiamo a immaginare This is Macerata, This is Belluno, This is Siracusa) e quali siano gli stress che producano il cambiamento: tecnologia, relazioni, turismo, senescenza.
Per questo l’oggetto sono piccole comunità:
comunità di nerds, di freaks, di ossessionati.
Alcune scompaiono per sempre, altre ne arrivano.
Frequentatori di cinema a luci rosse, tossicomani di videocassette, barbieri ottuagenari, barbieri minorenni, locali notturni, gente che vive sugli autobus, palestre, radioamatori, turisti, nomadi, tycoon del bullone.
Opificio Ciclope
Opificio Ciclope è un marchio collettivo nato più di 20 anni fa negli spazi del Link project di Bologna.
Ha collaborato alla produzione di documentari per Tele +, Sky Arte, Wired Italia, FilmMaker.
Ha prodotto contenuti, tra gli altri, per Animal Planet, Discovery Channel, Real Time.
Sinossi
Mondi che scompaiono. Ritratti di comunità urbane e suburbane.
Comunità in via di estinzione o nuove comunità in formazione.
Bologna è un posto bizzarro. Tuttavia, al di fuori dei suoi confini è la barbarie.
La vecchia città è assediata da una nuova savana.
Homeless, nomadi, turisti, freakettoni non sono che l’avanguardia di una nuova cittadinanza. Gli antenati di re futuri. Forse i tempi sono già maturi per pensare ad un “rebranding”, ad un nuovo nome, magari attraverso un bando pubblico.
Questo film è come un ritratto di spalle, una fisionomia sfuocata, notturna. Eviteremo accuratamente di mostrare grandi monumenti, personaggi illustri e fatti di provata portata storica.
E’ un ritratto che procede invece per frammenti minori, cittadini anonimi, intrusi. Balle.
I TERMINI
Città di sabbia
Gaggio Montano, Montovolo, Vergato, paesi dell’appennino bolognese, corrugato dai calanchi.
Da posti come questi viene la pietra più dura che i bolognesi sono riusciti a trovare, la triste arenaria.
Poco più che argilla secca nobilitata dal calpestìo del tempo, spesso intrisa di ghiaie, impossibile ricavarne lastre, difficile costruire, facile da incidere, utile per bassorilievi e decorazioni.
A questa pietra il patriziato bolognese affidò la propria memoria sperandola immortale, sbagliando.
Tutto la consuma: l’aria, l’acqua, il tatto.
La facilità con cui era possibile disegnare fregi venne pagata con la sua fragilità: porte, portoni e stemmi araldici nei secoli si comportarono come il sapone; contorni sempre più morbidi, figure che si sciolgono.
Il sogno di quella Bologna postmedievale e rinascimentale si trasformò brevemente in un lebbrosario: leoni decapitati, santi mutilati, armi e scudi sciolti come lumache straziate dal sale.
Non c’erano vere alternative: l’inscalfibile selenite, la modesta argilla cotta che soppianterà nei fregi l’arenaria; pochissima la pietra serena che costruì l’opulenza di Firenze, rarissimo e troppo costoso il marmo che non riesce a mascherare i mattoni di San Petronio.
Sabbia e mattoni, di questo era fatta Bologna, un castello infantile che le onde del tempo stanno cancellando.
Veniamo consumati senza accorgerci che nuove città sostituiscono le precedenti, un granello di sabbia per volta.
2700 anni fa qualcuno, invece, volle un cerimonia che segnasse la fine della città che precedette Bologna, seppellendo due Dèi di arenaria.
Nel 1985, lavorando attorno a qualche grosso tubo, la benna di una ruspa sfiorò due Dèi sepolti, messi a dormire, deposti sotto l’asfalto di via Fondazza. I due cippi che ora sono all’ingresso del museo archeologico erano essi stessi divinità; paragonabili ai Termini romani segnavano la fine e l’inizio della città: nè di Bologna nè della Bononia romana, erano divinità della Velzna etrusca.
E’ a partire alla metà dell’ottocento, grazie ai buoni uffici del Gozzadini che a Bologna ci si occupa degli etruschi e della civiltà villanoviana.
La memoria di Velzna riposa opaca, sotto i notri piedi, lo stesso Gozzadini trovo i reperti più consistenti in Strada Maggiore a poche decine di metri.
Le città cambiano nome, Dèi e genti.
Dèi in arenaria, conservati dall’azione degli elementi poichè sepolti.
Governavano un confine che non esiste più, “concedo nulli”, tra gli abitanti di Velzna e il mondo, tra i vivi e morti, tra il loro presente e un futuro che ha smesso di venerarli, noi.
Un giorno di 2700 anni fa i Termini di Velzna vennero illuminati dal sole per l’ultima volta, prima che una mano pia li seppellisse, senza distruggerli. Di quanti Dèi, di quali genti con cui condividiamo il tempo possiamo dire altrettanto; le città, le tecnologie, i popoli scompaiono senza poter diventare fossili, stiamo osservando qualcosa per l’ultima volta, senza saperlo.
I FLÁMINI MARZIALI
Barbieri
Tàgliati i capelli e trovati un vero lavoro.
Ma non solo: quando un uomo esce dal barbiere deve essere in grado di fare due cose: sedurre e combattere.
C’è e c’è sempre stata una componente spirituale, marziale, rituale nel taglio dei capelli, in particolare quello maschile, e qui parliamo infatti di barbieri. Non parrucchieri, hair-stylist o coiffeurs: barbieri.
Antichi come il fuoco, virili come il Dio Marte, gente che ha imparato il mestiere su una nave, in una caserma, in riformatorio.
Il barbiere propriamente detto è un mestiere che sta cambiando riti e preghiere di fronte ai nostri occhi, assistiamo alle ultime liturgie. Ne arriveranno e ne sono arrivati di nuovi, dall’industan, dal magrehb, ma per un attimo concentriamoci sulla residua generazione di barbieri bolognesi.
Oggi hanno tra i settacinque e gli ottantacinque anni, facciamo un po’ di aritmetica, vuol dire aver avuto 20 anni durante i Sessanta, 30 nei Settanta, 40 negli Ottanta; come si dice a Bologna “aver visto un bel mondo”.
anni senza Ikea, arredi specifici e sgargianti, flaconi di dopobarba fuori commercio, il poster di Bologna campione con Pascutti, il calendario Usag, l’annuario delle acconciature per uomo del 1974, l’attestato di un buon piazzamento ai campionati regionali di Acconciatura Uomo di una estate di quaranta anni fa.
Dino Risi fa elencare a Nino Manfredi i tagli indipensabili nel 1968:
“Gran liscio, alla Oberdan, alla Mascagni, alla Umberta; anche mano speciale per il riporto, semplice, girato, di rinterzo; frizione al tuorlo d’uovo con chiara per bulbi deperiti; scultura a rasoio, taglio strinato a candela, stiramento capello riccio a phon, cotonatura, stile Ringo, taglio a spazzola, a scalare, a pera, ed anche il taglio capellone benchè ormai esso al tramonto”
Prima arrivarono i cinesi, mandarono avanti un’avanguardia di opliti adolescenti con tagli battaglieri degni dei Tre Regni, nuovi eserciti, nuovi Dèi della guerra; li seguirono i pakistani e i bangladesi che appresero dagli inglesi il rigore della sfumatura e dalle favole persiane i disegni delle barbe, infine i nordafricani, rapidi con la lama e veloci come Assassini Nizariti.
Le mode che arrivano da Williamsburg non finiranno in questo elenco, gli hipsters non si inginocchiano di fronte a Marte, ma accendono ceri a una divinità femminile, la Fama.
Ma a Bologna, ancora per pochi anni, resiste l’ultima generazione di barbieri che guardava all’esempio della brillantina di Jean Gabin e ai baffi di Amedeo Nazzari. Così, secondo loro, bisognava affrontare la guerra.
In via Fondazza il barbiere Angelo ha già passato gli ottanta anni, molti dei quali spesi con il rasoio in mano ad abbellire la fanteria del sabato sera. Il fatto di non poter più esercitare la sua professione non gli impedisce di aprire ogni giorno la sua bottega e sedersi sulla porta. Lì aspetta la morte, indossando il suo camice celeste.
PRIAPO
Cinema Excelsior + Gilda
Il tetto sembra quello di un’officina, unica volta a botte; la facciata, non inelegante, allude al modernismo del ventennio con un accenno di travertino bordato in alluminio rosso.
I soldati se ne sono andati 15 anni fa. Le coppie hanno preferito rifugi più appartati, nascosti nella nebbia della provincia. Le mercenarie sono state allontanate dopo l’ennesimo esposto dei questurini. Il risultato è che nei forum dedicati ci si inizia a lamentare di chi russa nelle ultime file. E’ l’oltraggio dell’età, sono rimasti solo i vecchi ad adorare il dio Priapo.
In Italia sono rimasti solo 31 cinema porno: avverano la profezia che fece Ferreri nel suo ultimo film prima di morire; le sale cinematografiche, disse, sono destinate a diventare dark room.
Questo si fa nei cinema porno: masturbazione, talvolta reciproca, sesso orale, magari una penetrazione nei cessi, finchè non arriva un questore a dare un fermo amministrativo da 15 giorni.
Dei 31 cinema porno italiani, due sono a bologna: il Corallo e l’Excelsior.
In via della Grazia, una strada resa già grottesca da un pub con un autobus a due piani sul tetto, resiste per una residuale popolazione anziana il cinema Excelsior di Fiorella Milan. Lei, Fiorella, non si nasconde, non ha pudore nell’affiancare il proprio nome a quello del cinema sin nella ragione sociale e risponde alle periodiche interviste in occasione delle chiusure ordinate dalla questura: non diamo fastidio a nessuno, dice, a ragione.
La notizia dell’ultima chiusura descrive una coppia sorpresa a fare sesso durante la proiezione. 62 e 66 anni.
Vecchi omosessuali, estranei al dibattito sui gender studies, alla teoria e alla prassi politca, non danno fastidio a nessuno: stanno pregando il dio Priapo, come hanno sempre fatto e saputo fare, in attesa di estinguersi, in attesa che il cinema Excelsior venga riconvertito in sala bingo, in outlet cinese.
In centro, non così distante, sorge la Salara; recupero settecentesco nel più ampio contesto della manifattura delle arti, tra museo d’arte moderna e cineteca. Nè fu meno prestigioso il primo edificio dell’Arcigay a Bologna, Porta Saragozza e il suo fiorito terrazzo, ora restituiti alla venerazione dei fedeli della Beata Vergine di San Luca.
Nacque come occupazione, la Porta; è un posto che racconta di attivismo e lotte politiche. Collettivi, manifestazioni, associazionismo e, certo, feste, danze e rinfreschi ma soprattutto un obiettivo e una promessa: non nascondersi mai più, non essere mai più sorpresi da un paio di questurini in borghese nel cesso di un cinema porno, non lasciare che un ragazzo invecchiasse temendo di fare la fine del topo.
Eccoli i ragazzi: nati dopo Stonewall, nati dopo la prima occupazione del cassero di Porta Saragozza, nati dopo il primo pride italiano del 1994: cosa se ne stanno facendo dell’utopia inseguita da 50 anni?
Molte cose, come chi li ha preceduti, ed altre ancora, inaspettate: giocare a Dungeons and Dragons, ad esempio.
La Gilda è un associazione ludica. Nasce 5 anni fa. Si rivolge al mondo LGBT appassionato di giochi di ruolo,un mondo in cui, dagli anni 70, è possibile essere qualcun altro, eccedere il proprio genere e il proprio corpo. Si riuniscono con frequenza, hanno pubblicato un gioco (Lobbies, ambientato nel mondo LGBT), partecipano come squadra a fiere e tornei internazionali, hanno talento per il cosplay. Forse Priapo si può pregare anche così.
Alcune delle foto, va detto, ricordano impietosamente raduni scout e vita da oratorio. Altre invece rivelano lo spirito avventuriero e spavaldo, scatti fatti durante i Pride, in cui gli iscritti alla Gilda esibiscono una versione nera e rosa della bandiera corsara mentre scandiscono lo slogan
•https://www.player.it/giochi-da-tavolo/396827-recensione-lobbies-lgbtqi-card-game.html
•https://www.querty.it/podcast/lobbies/
GLI EPULONI
Turisti
Una città dai modi discreti, orgogliosa ed operosa, resa autorevole dalla presenza millenaria di un’università, modesta, vetusta, medievale.
Questa era Bologna, fino a lunedì 27 ottobre 2008.
130 persone scendono da un Boeing 737-800 partito in mattinata da Birmingham.
Sono i primi passeggeri di un volo Ryanair per Bologna, avanguardia e testa di ponte di un esercito invasore, inizio di un’era che dura fino ad oggi,
Le merci raccontano di questo mutamento, le vetrine dei tabaccai ci raccontano di una città cambiata: alle antiche cartoline, umili collages di torri, tortellini e donnone alte 40 piedi si sostituiscono nuovi gadgets, nuove calamite da frigo, nuove shopping bag in tela. Non è ancora la lebbra veneziana, con eruzioni di mascherette di carnevale in cartone, o la peste fiorentina, con purulente piaghe di obesi in Segway, ma in città serpeggia un certo mal francese. In via Orefici timide si levano le prime invocazioni da intromettitore, da buttadentro: per di qua signori, prego signori, tortellini very good. In centro si è rinunciato alla tavola optando per il più redditizio e truffaldino taglierone di affettati.
Il tagliere di affettati è un santino di questo turismo di devozione gastronomica. In un pellegrinaggio organizzato le guide mostrano i luoghi della venerazione: le vetrine di tortellini, la lapide alla Beata Mortadella, il santuario fuori porta dei Santi Parma e Parmigiano, un sacrario di affettati e turbocapitalismo.
Il turista tende ad assumere comportamenti regressivi: mangiare molto, ozio, narcisismo.
A centinaia, ad ogni ora, orde di bambinoni sazi cercano la posa migliore per un autoscatto da pubblicare.
Quel che certo è che questa concentrazione di portafogli satolli e inebetiti dalla digestione non poteva che attirare i malintenzionati: ecco sbucare dagli angoli falsi mimi questuanti e minacciosi, candidi sintomi di una malattia, una infezione fungina che attacca il corpo di una città già debilitata dal turismo.
Meglio quindi per il turista prendere una boccata d’aria per favorire la digestione; a questo scopo si moltiplica l’offerta di mezzi di trasporto adatti: autobus e furgoncini scoperti, con voci guida, con musica, con animazioni a bordo. Se nemmeno questo bastasse, l’arma finale, culmine del vizio, della deboscia, dell’umiliazione di sè: il trenino lillipuziano gommato. Costruiti da un’unica ditta italiana di Castelfranco Veneto che li esporta, purtroppo, in tutto il mondo, i trenini turistici si sono già moltiplicati dividendosi il mercato in differenti tragitti.
Uno in particolare arriva fino alla chiesa della Beata Vergine di San Luca, in cima all’omonimo colle. Un percorso lungo e tortuoso, non scevro di minacce.
Cosa succederebbe, ci chiediamo, se una banda di malintenzionati volesse mettere in atto la Grande Rapina al Trenino?
Quanti banditi mascherati a cavallo sarebbero necessari per ripulire un convoglio da tre vagoni?
In quali dei canyon di Gaibola avrebbero più possibilità di successo e di fuga?
A quanto ammonterebbe il bottino?
Come potrebbero impedire che una posse si mettesse al loro inseguimento?
Dando fuoco, forse, al convoglio?
HERMES
Onde radio
Ipotizziamo che un’anziana parente abbia voluto conservare un vecchio televisiore, magari sull’apposito mobile, forse su un amorevole centrino, e che questo televisore dopo il passaggio al segnale del digitale terrestre, non potendo più trasmettere il sorriso bonario di Mike Bongiorno, sia rimasto spento e lucido, al suo solito posto, in tinello. Col permesso dell’anziana parente potremmo chiedere di accenderlo e forse, forse, vedremmo nuovi, inaspettati segnali dove prima c’era solo rumore bianco, neve.
Monoscopi, schermi con stringhe alfanumeriche. Si tratta di una setta di anziani e dei loro esperimenti.
Le frequenze UHF, prima completamente dismesse, sono state riassegnate a scopo sperimentale alle associazioni nazionali di radioamatori, congreghe senili di nerd ossessionati dalla trasmissione e ricezione di segnali radio. Gruppi carbonari spesso costituiti da ingegneri in pensione cui non manca una certa verve agonistica. Qui, nella città che fu di Marconi e grazie ad una legge del Duce ancora vigente, è possibile esercitare il diritto d’antenna, la libera arte della trasmissione di un segnale.
Solo pochi anziani saggi conoscono l’ubicazioni dei tetti che ospitano le antenne più antiche e le sanno distinguere da quelle di ricezione; si riuniscono con rito ortodosso ogni venerdì notte, a Casalecchio di Reno, citofonare ARI, Associazione Radioamatori Italiani. Qui decidono come lasciare un segnale di sè, trasmettendo nell’etere segnali destinati, ipoteticamente, a propagarsi per sempre.
Ad altri piace solo ascoltare, ascoltare qualsiasi cosa: volanti della polizia, torri di aeroporti, camionisti loquaci, guardie giurate, radio taxi.
Nascosta e anonima come la dj dei Guerrieri Della Notte, una voce femminile guida i taxi dai loro clienti, recitando il rosario delle destinazioni più oscure, l’abracadabra della toponomastica cittadina: Olanda, Braina, Sostegno, Cane, Broccaindosso. Anche lei è ascoltata, segretamente, da un piccolo gruppo di collezionisti di segnali.
Aspettano la notte e il favore della ionosfera per poter estendere il più possibile il loro territorio di caccia. Claudio Bergamaschi è uno di loro: ha un blog costantemente aggiornato sull’elenco di tutti i segnali che è possibile ricevere in città, colleziona frequenze, monoscopi, ubicazioni delle antenne. A lui oseremo chiedere la più esoterica delle domande: se abbia mai ricevuto tra i suoi segnali le ultraterrene voci dei morti.
EFESTO
Sferisterio
Burattatura, brocciatura, molle a tazza, spine cilindriche, rondelle shnoor, viti automaschianti, rosette svasate, linguette a disco, golfari ad occhio circolare. L’opaco mondo dei prodotti di minuteria metallica. Un mondo astruso e umile di meccanismi, componenti, pezzi. Migliaia di pezzi al giorno, miliardi di pezzi all’anno, vera colonna portante del comparto industriale della città. Non emergono colossi, si tratta di un un tessuto diffuso, reticolarmente sparso ai margini degli abitati, quartiere industriale per quartiere industriale, è qui che la vite prospera, di questo campa Bologna.
Migliaia di officine, diverse per fatturato e storia, si affollano in strade di capannoni senza decoro, giusto un insegna con un monogramma, un acronimo, una data.
70840 persone sono impegnate nel comparto manifatturiero meccanico nella provincia di Bologna, una fucìna di Efesto che non si ferma mai, divisa in 5344 aziende.
Un mondo per cui è deprimente la sola idea di poter lasciare un segno di sé, d’avere l’ambizione di emergere, d’essere ricordati.
Lo sport, ecco l’unica possibilità di lasciare il proprio nome, scrivendolo sulla maglietta di un giocatore; ma anche lo sport si stabilisce altrove, lontano, come i bulloni, dalle mura della città. Un secolo fa si giocava a calcio in Porta San Vitale, cinquanta anni fa si giocava a pallacanestro in Sala Borsa, ora resistono solo due impianti: il Palazzo per antonomasia, sede della Fortitudo pallacanestro, e la ben più umile palestra Achille Baratti, altrimenti detto Sferisterio.
In un giorno del 1946 venne giocata per l’ultima volta una partita a Pallone Toscano, uno sport che fu popolare per quattro secoli. Ora estinto per sempre.
Per il Pallone venne edificato lo Sferisterio, centrale, lungo più di cento metri, promessa di spalti urlanti.
Venne riconvertito a padiglione fieristico, campo di pallacanestro, campo di pallavolo, ring di boxe, chiuso e riaperto più volte.
Ora ospita squadre giovanili, divise in tre campi: basket, volley e pattinaggio su rotelle.
Un costante simultaneo frastuono di allenatori afoni e urlanti, adolescenti alla prima esperienza sportiva, squadre di lesbiche che rievocano il Rollerball, pallavolisti amatoriali che cercano di smaltire qualche chilo dopo il lavoro.
Ai margini del campo niente pubblico, solo armadietti metallici. Su di essi gli adesivi di decenni di sponsor, fabbriche bolognesi di bulloni.
I LESTRIGONI
Baracche
Se non ha un numero civico non è una casa, e chi vi dorme non è un cittadino di Bologna. Un’altra città si sovrappone, si insinua sotto, circonda Bologna, non censita, senza nome, senza una porta, un numero civico.
I primi avamposti di questa popolazione sono in centro: nicchie di monumenti poco frequentati, ingressi al mondo sotterraneo delle acque, cantine residue di rifugi antiaerei. Qui vive una prima falange della Bologna ctonia: homeless, dropouts, persone che arrivarono a giacere per terra, per non sollevarsi più, per non fare ritorno al di là di una porta con un numero civico.
Altri rifuggono l’abitudine e preferiscono la narrazione dello spostamento, del viaggio e della velocità: preferiscono dormire su autobus in movimento, si addormentano nelle stazioni; i più fortunati hanno una porta da chiudere ma non un numero civico, dormono in auto, in camper che non partiranno mai più. Si radunano in parcheggi ai margini della città, il Meloncello, Staveco, sono una forma embrionale di insediamento umano.
Infine piccoli villaggi vengono fondati dove esistono terreni senza umani: lungo le ferrovie, al riparo dei viadotti, sui bordi dei fiumi. Un perenne mandala urbano vede apparire e cancellare questi embrioni preistorici di civiltà, ogni anno si dà annuncio degli sgomberi delle baracche, via Agucchi, via del Triumvirato, prati di Caprara, via Fattori, via del Lazzaretto. Nuovi paesi sorgono, seguendo le intuiizioni dei nostri avi, vicino all’acqua, lontano dalle vie di transito, dove il terreno pianeggiante lo consente. Tele cerate, offerte di Decathlon, cellophane e aste di pvc sono i materiali di costruzione.
All’indomani di ogni conflitto europeo, specie di quelli che hanno coinvolto i Balcani, un traboccare di sconfitti arriva nelle città e cerca di fondarne una nuova.
La prossima Bologna potrebbe nascere da qui, dal sinecismo delle baracche lungo il fiume Reno, a imitazione dell’Urbe. Dagli anni novanta una comunità di nomadi, quasi tutti provenienti dalla Romania sta provando a fondare una nuova città,
Forse verranno ricordati come gli antenati dei Re futuri. Nel 2018 in un accampamento nascosto dalle fronde del bosco di Caprara, in una radura tra gli alberi appare un altare, qualche immagine sacra appesa ai tronchi, l’inizio di una chiesa, una civiltà ai suoi albori.
IL CADUCÈO
Videocassette
Una brutta storia di dipendenza, la scimmia, stare a rota.
La ricerca col fiato corto e occhi lucidi di un’insegna al neon, una farmacia, un bar notturno, un supermercato, un bancomat.
Oppiacei, per alcuni; per altri, sesso a pagamento, un tetrapak di vino bianco, un blister di Xanax.
Per altri ancora si tratta di un’insaziabile voracità degli occhi; impossibile andare a dormire, inpensabile accontentarsi di un segnale televisivo, inutile e frastornante la contemporaneità di YouTube e dei social: ci vorrebbe una bella videocassetta.
Nascono a metà degli anni Zero i distributori di VHS, per poi essere riconvertiti in noleggi automatici per DVD e BlueRay o, infine, sparire nell’arco di dieci anni.
A Bend, Oregon è rimasto l’ultimo negozio Blockbuster del mondo; è ancora possibile noleggiare film in VHS, comprare pop corn per i microonde, tornare a casa con una tazza celebrativa.
Si tratta in realtà di un museo e nella teca ci siamo noi, l’Homo Televisivus, una civiltà scomparsa e i suoi consumi, abitudini e riti; un mondo prima di internet e degli smartphones, un mondo scomparso per sempre.
In attività da trenta anni il videonoleggio Balboni continua a prosperare e, sì, continua a noleggiare anche videocassette VHS, diecimila titoli.
Un drugstore per gli ultimi tossicomani di film altrimenti introvabili, edizioni rare, doppiaggi specifici.
Un modello del 1993 di Compaq Presario 425 ronza in un angolo e si occupa da decenni dell’archivio: decine di migliaia di titoli; tra questi la collana di Lamberto Forni, una quarantina di titoli bramati dai collezionisti, copertina blu per gli erotici, copertina rossa per gli horror.
Dalla vicina San Giovanni in Persiceto Lamberto Forni raggruppò una serie di titoli maledetti e si lasciò venerare per averli restituiti ai cinefili in edizioni VHS pregiate: copertina rigida in mescola speciale, accurata riproduzione della locandina originale, etichetta in adesivo dorato.
In via Castiglione, al piano nobile di un palazzo patrizio, l’afa di Agosto ci permette di guardare oltre alle tende del balcone, spalancate e immobili.
Una lunga parete è completamente tappezzata di VHS per tutta l’altezza della stanza, amata collezione privata; quelle videocassette aspettano ordinate e silenziose di essere viste da occhi umani ancora una volta, per l’ultima volta.
EUTERPE
Freakout club
Dopo aver imboccato una scala che pochi conoscono, in cima ad un calvalcavia, quindi essere passati sotto un ponte non illuminato e aver costeggiato un cantiere, nascosto tra i binari ci appare un edificio di mediocre architettura, già sede di un ufficio amministrativo per un deposito di patate; al piano terra, il FreakOut Club.
Iniziamo dall’elenco dei vicini: le abbandonate rovine di quella che fu la capitale dell’impero di Cesare ragazzi, un locale di preghiera per musulmani pakistani, un club privé per scambisti; infine, appunto il FreakOut Club.
E’ un posto senza fronzoli: niente riscaldamento, un bagno per tutti, birra in lattina, un neon alla porta. Nessuna possibile mondanità, poche chiacchere all’ingresso e all’uscita, solo concerti.
Duecentocinquanta concerti in un anno. Più di millecinquecento concerti negli ultimi 5 anni.
Ci lavorano in tre: Cerri, Galli e Lippa e si dividono fatica e paga.
Ultimo ramo nella linea di discendenza che a partire dall’Isola nel Cantiere introdusse il punk hardcore americano qui in paese. Tra i loro avi si annoverano anche lo occupazioni che fecero convivere le ragioni dell’antagonismo gay con il death metal. Atlantide, Lazzaretto, scena DIY: c’è insomma un limpido quarto di nobiltà cittadina nei lombi del FreakOut Club.
Il ritmo di programmazione è serrato, la paga misera, la fatica insanabile: ogni anno di programmazione al FreakOut potrebbe essere l’ultimo.
A ben vedere sono dei nerd, dei collezionisti che hanno cercato di allineare, complici gli abbordabili cachet, le esibizioni di decrepite glorie dei 70, la serie completa dei trapper campani, la raccolta delle action figures del noise scandinavo.
Talvolta, tra una band di anziane giapponesi e un gruppo screamo di Mirandola capita la data importante, al FreakOut hanno suonato i Flipper, al FreakOut ha suonato Glenn Branca.
Anche il pubblico è fatto di nerd e collezionisti, tornano al FreakOut per l’ultima possibilità di una copia autografata, di un’edizione numerata, di una foto con la venerabile star prima che sia troppo tardi.
ECATE
Venerdissimo 707
All’inizio del 900, in via del Pratello viene attestata la presenza di una nuova civiltà, la stessa che un secolo più tardi tornerà al contado da cui proveniva risalendo la via dei monti da cui era scesa.
Nelle ‘Società di danze’ Aida e Aquila appare per la prima volta un genere musicale, la Filuzzi.
Siamo a Bologna, non ci si accontenta di un generico liscio, non si ha nulla da spartire con la saga dei Casadei. A Bologna si balla la Filuzzi e si venera l’organetto di Nildo Marchesini.
Per novanta anni il ballo indigeno per eccellenza è stato questo, irradiandosi in scuole, sale da ballo, feste dell’Unità, giardini estivi. Infine, al volgere del millennio si è ritratto sempre di più, allontanandosi dalla città.
Addio balera di via Bentini, addio Sala Sirenella, addio Valle Reno Danze, chiuse per sempre, mai più riaperte. Nel tessuto urbano rimane in pratica solo un nome, un appuntamento residuo per la Filuzzi, il circolo ARCI Ippodromo.
È rimasto come ultimo approdo di un genere che si è rifugiato nella più placida provincia e è dalla provincia che arrivano fisarmoniche, orchestre, voci soliste.
I ballerini invece sono rimasti qui, appesantiti dalle cene che precedono l’apertura delle danze e dagli anni. L’età media dei frequentatori dell’ARCI Ippodromo è elevata e il tempo non è stato gentile con nessuno. Continuano però ad esibire il loro
e non hanno intenzione di smentire la carica vitale e l’arcaica allusione sessuale.
La pista da ballo è stata un luogo di grande emancipazione, il posto giusto per affermare il primato del corpo, rivendicare il diritto al desiderio; sulle piste da ballo di Bologna le donne hanno sancito la loro libertà sessuale, walzer dopo walzer, un passo strisciato alla volta. Anche oggi nel ballare la filuzzi c’è una rivendicazione, è l’esibizione di un fervore sessuale che la vecchiaia non mitiga: non siamo ancora morti, guarda che Frullone.
In provincia le cose vanno diversamente e la dedizione al ballo si manifesta sotto forma di saga familiare; vicende circensi paragonabili alle storie dei Togni e degli Orfei, i Gabusi-Tavolazzi alla terza generazione di ballerini attestati nel feudo della Festa dell’Uva di Castenaso o l’orchestra Capitani a guardia della tradizione della Festa della Fisarmonica di Porretta. Una vita di esercizio, di pratica, di sacrificio.
Non poteva durare. Dopo la sbornia per il caraibico-latino e la perenne minaccia del tango argentino ci troviamo in una nuova era, uno sfumato interregno.
Quel che non si è mai interrotta è l’affermazione femminile di emancipazione sessuale, ora etichettata da hashtag: #milf, #mature, #cougar.
Il Venerdissimo dello 707 è costruito intorno a loro: mensa aziendale di giorno al primo piano di un edificio periferico di cemento prefabbricato, nel finesettimana diventa un’affollata savana di pantere.
Modesta l’offerta musicale, anche quando paragonata alle fisarmoniche della Filuzzi, una pletora di cover band i cui nomi dicono più di quanto vorrebbero: i Menlove, gli Anthera, i Nessuna Pretesa, il dj set Cialtronight.
Il Venerdissimo si definisce come una “serata dedicata principalmente ad un pubblico adulto” e le foto non mentono. Spesso in rituali terzetti di Grazie, reminescenti delle staue di Ecate, il pubblico del Venerdissimo si mostra agli utenti di Istagram: non siamo ancora morte, guarda che Frullone.
IL DIO IGNOTO
Puntata misteriosa
CARONTE
Linea 61
Né la neve, né la pioggia, né il caldo, né l’oscurità della notte, fermano queste corriere dal completare i giri previsti.
Affidabile, il trasporto pubblico di Bologna, rispettabile la puntualità: gli autobus a Bologna non si fermano mai, nemmeno la notte.
Le linee 61 e 62 si occupano di percorrere un arzigogolato tragitto, tortuoso ma efficace nel non lasciare isolato nessun quartiere benché periferico.
Partono e arrivano da due grandi cattedrali, agli opposti margini della città: il deposito Battindarno e la rimessa Due Madonne.
Chiunque in città ha pronunciato almeno una volta questa frase: prima o poi passerà il 61. E il 61 prima o poi arriva, ruggendo nell’afa silenziosa delle notti di agosto, fendendo la nebbia di febbraio; non si è mai troppo lontani da una fermata del 61 e non si verrà scaricati nell’oscurità mai troppo lontani dalla destinazione.
È un viaggio senza alternative per molte persone: gli ultimi lavoratori della notte,
i primi lavoratori dell’alba, gli studenti squattrinati in uscita dai locali.
E’ un rifugio caldo per i senzatetto, una benefica frescura per gli ubriachi, il night express dei malinconici.
Il percorso elenca nomi misteriosi; inutile indagare sul loro significato, sono nomi stregati:
È un traghetto che trasporta i corpi sfiniti dall’oggi al domani, che attraversa il tempo che divide la notte dall’alba, lo spazio che separa il centro dalla periferia.
È una frazione di Bologna che si sposta nel buio, è un fuso orario a sé stante, una soglia infera tra i vivi e i morti.
Il suo percorso separa l’attuale dal possibile, è il solco fondativo ai cui lati sorgeranno luoghi futuri: futuri distretti industriali, futuri quartieri, future strade si sostituiranno agli odierni sterpi e ai tralicci elettrici.
Ma in ogni possibile Bologna futura esisterà un 61, forse sotterraneo, forse sospeso da una monorotaia, magari iniettato in condotto pneumatico.
A bordo prima o poi scoppia una rissa o arriva la cagnara.
Tuttavia, il più delle volte, si guarda nel vuoto e si attende sfiniti un cambiamento; di vigile ci sono solo le camere di sorveglianza interne e lo stoico autista.
Non sappiamo se gli autisti delle linee notturne siano lì per avidità o per punizione; li chiamano i nottambuli, guidano fino al giorno dopo e pregano di arrivare incolumi al loro altare: il distributore automatico del caffè a fine turno.